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18-22 marzo 1848, le Cinque Giornate di Milano: cosa accadde?

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1848: anno ricco di rivolte popolari, che ebbero la capacità di dare voce a nuove ideologie politiche. Milano fece la sua parte, ribellandosi al dominio austriaco, in quelle che vengono ricordate come le Cinque giornate di Milano.

Le Cinque giornate di Milano rappresentano uno degli avvenimenti più complessi da determinare e da comprendere. Nel tempo si è creata una sovrapposizione di idee, interessi e cause. Negli anni si è snaturato il vero e proprio significato degli eventi, arrivando a notevoli distorsioni storiche.

Come tutto ha avuto inizio

La genesi va ricercata nel ruolo assunto da Milano dopo la caduta del Regno d’Italia nel 1814. Milano all’epoca capitale dell’impero, con la conseguente riunificazione all’Impero asburgico aveva visto un incremento notevole nei commerci. La città rappresentava così il fulcro di una società elegante e aperta, nella quale confluivano letterati e artisti. Con l’arrivo degli austriaci, accolti come liberatori dal popolo, la vita cambiò radicalmente. La centralizzazione del governo austriaco non poteva ammettere che Milano offuscasse, con la sua intraprendenza commerciale, Vienna la capitale dell’Impero. Per sopprimere questa crescita esponenziale borghese, l’Impero impose un “codice della nobiltà”, dove solo le famiglie di antica discendenza nobile potevano essere ascritte. Il tutto avveniva previo il pagamento di una tassa nobiliare. Gli esclusi, in questo modo, perdevano tutti i diritti acquisiti sotto l’antecedente regime napoleonico.

Le conseguenze sociali

Le grandi famiglie di nobili che avevano fondato le proprie ricchezze sulle proprietà terriere furono ulteriormente danneggiate dalle forti limitazioni imposte dal governo austriaco. D’altro canto, la borghesia perse tutti i suoi titoli e venne allontanata dal governo e dalla pubblica amministrazione. Alla guida amministrativa furono così nominati solo funzionari austriaci. Anche il popolo cominciò a nutrire sentimenti di sfiducia verso gli austriaci. La coscrizione militare fu mantenuta obbligatoria, ciò presupponeva una mancanza a oltranza della manodopera giovanile nelle campagne.

Da manifestazione pacifica a rivolta

Il malcontento per il dominio austriaco era già vivo dal 1846. Sparute proteste milanesi si verificarono nelle piazze della città, ma l’esercito austriaco non ebbe problemi a reprimere queste prime avvisaglie di malcontento.

Dal gennaio 1848 la popolazione milanese decide di attuare, come forma di ribellione passiva, uno “sciopero del fumo”. I milanesi rinunciano così ad acquistare e consumare tabacco poiché, essendo questo un monopolio di Stato, l’astensione avrebbe direttamente colpito le finanze austriache. In seguito ai disordini le truppe austriache si danno a veri e propri atti di saccheggio.

Arrivate poi le voci su una rivolta scoppiata anche a Vienna, i milanesi decisero di approfittare del momento di difficoltà degli austriaci. Fu organizzata una manifestazione pacifica per il 18 di marzo. Fatta per richiedere: libertà di stampa e più autonomia dal governo centrale. La pacifica manifestazione si trasformò ben presto in una rivolta violenta, dettata dalla volontà di eliminare quel regime austriaco così opprimente. All’alba del 18 marzo 1848, il generale Radezky, che guidava le truppe austriache, fu colto alla sprovvista dalla notizia che la popolazione aveva cominciato a innalzare le prime barricate. Fu costretto, così, a rinchiudersi con diverse migliaia di uomini del Castello Sforzesco. La rivoluzione era cominciata. Mentre le barricate andavano moltiplicandosi, molti membri dell’aristocrazia e della borghesia cominciarono a trasformare i propri palazzi in ferventi centri della rivolta.

Il susseguirsi degli eventi

Lo stesso giorno, mentre sulla guglia della Madonnina del Duomo veniva innalzato il tricolore, il conte Carlo d’Adda e Enrico Martini partono alla volta di Torino con il compito di convincere Carlo Alberto a muovere guerra all’Austria per liberare il Lombardo-Veneto. Nel frattempo, il conte Gabrio Casati si poneva a capo di un Governo Provvisorio. A questo punto, i milanesi avevano la situazione in pugno, e la corrente riformista moderata aveva già avvisato il re di Sardegna Carlo Alberto di mobilitare le truppe per intervenire in aiuto dei ribelli milanesi. Il 21 marzo, la proposta di una tregua di quindici giorni avanzata da Radetzky viene respinta dalle autorità milanesi. Il 22 marzo i milanesi controllavano la maggior parte delle strade cittadine. Radezky provò un attacco contro Porta Comasina e contro Porta Ticinese, entrambi respinti dai “ribelli” milanesi. Il terzo assalto fu a Porta Tosa, ma vinsero anche quello i milanesi e gli austriaci furono costretti alla ritirata. Da quel momento Porta Tosa ha preso il nome di Porta Vittoria, per ricordare la rivolta vinta dai milanesi che cacciarono gli austriaci da Milano.

Radetzky così, vista l’esiguità delle forze in campo decise per la capitolazione ritirandosi con le sue truppe nel Quadrilatero. La rivoluzione era finita e il popolo milanese aveva per la prima volta trionfato. Nonostante i festeggiamenti dei milanesi dopo la cacciata degli austriaci dalla città, nasce la consapevolezza che la liberazione del Lombardo-Veneto può essere solo il frutto di una vera e propria campagna militare. L’unica potenza che può ambire ad una simile impresa è l’esercito sardo di Carlo Alberto.

L’inizio della Prima guerra d’indipendenza

Il 23 marzo, le truppe piemontesi passarono il Ticino dirigendosi verso Milano, dando così inizio alla Prima Guerra d’Indipendenza. L’esercito piemontese si mosse con estrema lentezza, dando modo agli austriaci di ritirarsi senza rilevanti perdite nel Quadrilatero. Sconfitte solo in due piccole battaglie al Ponte di Goito (9 aprile) e Pastrengo (30 aprile).

Mentre le operazioni belliche proseguono, la situazione diplomatica cambia rapidamente. Radetzky, ricevuti nel frattempo i rinforzi, decide di attaccare il punto debole dello schieramento avversario per aggirare i piemontesi da sud e liberare Peschiera dall’assedio. Con l’arrivo dei rinforzi attraverso il Veneto, l’armata austriaca eguaglia per numero, nell’estate del 1848, quella del nemico piemontese, che tuttavia risulta divisa in due nuclei. L’attacco di Radetzky a Custoza nel luglio 1848 costringe le truppe piemontesi alla ritirata definitiva fino all’armistizio di Salasco (9 agosto 1848).

La sconfitta piemontese e le conseguenze della guerra

Carlo Alberto decide di riprendere le ostilità contro l’Impero d’Austria il 20 marzo 1849. Contrariamente all’inizio della prima campagna, nel 1849, è Radetzky ad entrare in territorio sabaudo quasi senza incontrare resistenza. Grazie a questa manovra, le forze asburgiche guadagnano una netta superiorità numerica sul nemico e sconfiggono il resto dell’esercito piemontese a Novara il 23 marzo 1849. Vista la completa sconfitta, Carlo Alberto decide di abdicare al trono. L’indomani mattina il nuovo re Vittorio Emanuele II firma l’armistizio con il maresciallo Radetzky. La sconfitta piemontese causa un ritorno della reazione in tutta la penisola italiana.

La stagione rivoluzionaria del 1848-1849 si conclude quindi con una sconfitta del movimento patriottico. Nessuna provincia italiana è stata liberata dalla dominazione straniera. Se quindi dal punto di vista militare la prima guerra d’indipendenza si risolve in un nulla di fatto, è tuttavia altrettanto vero che Vittorio Emanuele II, mantenendo in vigore lo Statuto Albertino, non rinuncia all’avanzamento politico. Si consolida così il ruolo assunto dal Piemonte come Stato leader del processo unitario.

credits: vulcanostatale

@Clelia Mumolo

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